Otto donne per l'8 marzo: Marianne Faithfull

Marianne Faithfull
A volte una dote naturale può essere un problema. Spesso però ce ne si accorge tardi. È forse il caso di Marianne Faithfull (1946) che di fatto si trovò in mezzo al mondo della musica essenzialmente perché bella, bellissima. “Ho visto un angelo con delle grandi tette e le ho fatto firmare un contratto” avrebbe dichiarato Andrew Loog Oldham, manager dei Rolling Stones, e nel 1964, quel diciassettenne “angelo dalle belle tette” ebbe in dote un brano di Jagger e Richards (e lo stesso Loog Oldham), "As Tears Go By", e lei lo sparò al primo posto della classifica. Facile, no?
Sapeva cantare Marianne? Come tante colleghe sentiva un’insopprimibile vocazione alla musica? Irrilevante. Era bella, bellissima, e tanto bastava. Per il momento.
Da quel successo, riempì le cronache mondane come ragazza di Jagger o di altri, come dominatrice del jet set o per retate in cui veniva trovata strafatta o in possesso di droga. E la musica? Sì certo, qualche disco lo incideva anche, ma se ne accorgevano in pochi, meno di quelli che di lei conoscevano la dipendenza dall’eroina, gli stravizi di ogni tipo, il fatto che a vent’anni venisse beccata a un droga party con un po’ di Stones (strafatti), vestita solo di un tappeto di pelle d’orso.
Alla fine del decennio (e Marianne non aveva neanche 25 anni) ciò che occupava interamente la sua vita era l’eroina: “finalmente da tossica avevo raggiunto quella condizione che mi mancava da quando avevo 17 anni: l’assoluto anonimato.” Non è tutt’oro quello che riluce, giusto?
È stato scritto “fu solo dopo aver toccato i fondo che Marianne Faithfull divenne un’artista”, e in effetti a metà anni ’70, intrapreso un percorso di disintossicazione, in pessime condizioni fisiche, umane e finanziarie, cominciò a scrivere canzoni.
Nel 1975, pubblicò un album di musica country (!), "Dreamin' in my dreams", che andò anche benino, poi scomparve di nuovo, Quando riemerse, nel 1979, i tempi erano cambiati, la musica era cambiata, lei era cambiata: ora era punk, arrabbiata, dura, impegnata a distruggere platealmente la sua immagine di bambolina sexy degli anni ’60. E lo fece soprattutto con il suo capolavoro, l’album "Broken English", che presentò al pubblico una persona completamente diversa e una voce completamente diversa, più roca e drammatica. Ne fu tratto il singolo "The ballad of Lucy Jordan".
Quel ritorno sarebbe stato definitivo: da quel momento lei avrebbe continuato ad incidere regolarmente con una credibilità nemmeno immaginabile ai tempi in cui era solo una splendida diciassettenne che faceva bella mostra di sé sui rotocalchi.
Ma sempre canzoni con un fondo di disperazione, figlie di una vita a lungo disperata che pure, un tempo, sembrava stupenda.
Questa scheda è tratta dal libro "Just like a woman" di Lucio Mazzi, per gentile concessione dell'autore.
